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U11: 40° Torneo Bottacin di Padova

Commento a cura di Pepo (una volta conosciuto come Pier Paolo Damiani)

Io non c’ero mai stato

Ormai di tornei ne ho fatti tanti, qualcuno giocando, moltissimi da allenatore. Ma è la prima volta in assoluto che partecipo al Torneo Bottacin di Padova; è considerato da tutti, addetti ai lavori, appassionati, genitori e bambini come il torneo più importante della stagione per il mini rugby.

Quest’anno poi ha un sapore speciale, perché è il primo torneo “vero”, di alto livello dopo due anni di sospensione delle attività. E per tutti noi è carico di entusiasmo, di aspettative, di sogni e di speranze, soprattutto perché ci da la misura di quanto il futuro potrà essere normale…

Io poi arrivo con una veste unica: come una creatura mitologica sono mezzo allenatore e mezzo genitore. Mio figlio non gioca nella squadra che alleno, ma per una strana alchimia dettata dall’incrocio dei calendari dei vari campionati solo per oggi sono l’allenatore dell’under 11, la sua squadra, mentre in campo c’è l’under 13, la squadra che alleno.

Fino alla mattina tutto nella norma: il giorno prima viaggio in pullman lungo ma divertente, giro in città che fa sentire grandi i bambini, e bambini gli uomini; scherzi, risate, genitori che fingono di passare di lì per caso pur di poter salutare, o anche solo vedere da lontano i loro piccoli eroi, guardie notturne, qualche lacrima nostalgica dei più piccoli…ci scappa persino una birretta con l’amico Massi, compagno di tante battaglie fino a qualche anno fa. Insomma, mi sono addormentato con qualche farfalla nello stomaco, appagato dal fatto che finalmente i nostri 50 campioni sono tornati a fare quello che da sempre considero il modo migliore per crescere: le trasferte di rugby!!

Ma arrivati allo stadio Memo Geremia provo una strana sensazione, qualcosa di indefinito. Penso tra me e me “che fesso che sei: a cinquant’anni ancora ti emozioni come da bambino per un campo da rugby!”…

Ma quello non è un campo da rugby. Per quelli come me cresciuti a rincorrere l’ovale su campi di pozzolana, dove ci si sbuccia le ginocchia solo al pensiero di fare stretching, quello è IL campo da rugby!! Quando ci ho giocato non mi sono neanche reso conto di che razza di impianto sia. O forse è cambiato negli anni.

Guardo mio figlio, e mi sento orgoglioso di avergli regalato questa esperienza, della quale oggi non si rende neanche tanto conto, lusingato di poterla vivere al suo fianco.

Tutti negli spogliatoi, mettiamo gli scarpini, paradenti nel calzino, qualcuno ha il caschetto, ogni categoria si trova un angoletto per le rifiniture. Mio figlio non mi cerca, è con la squadra e in quei momenti non servono i genitori.

Io non so più quali siano i miei ragazzi: quelli dell’U13 li ho visti crescere, qualcuno ho cominciato ad allenarlo in Under 8, cinque anni fa, e ora che l’adolescenza bussa sulle sue spalle mi capita spesso di pensare che uomo sarà in futuro, come capita ai papà che vedono i figli crescere; ma oggi non li seguo io, e non voglio confondere loro le idee. Quelli dell’U11 sono i compagni di squadra di mio figlio, e una squadra di rugby è come una famiglia, quindi anche i parenti dei giocatori ne fanno parte, e poi oggi per loro sono l’allenatore, ci unisce un filo invisibile ma solidissimo.

E allora urlo quasi in aria un “andiamo ragazzi” che abbraccia un po’ tutti.

Ma all’ingresso in campo accade l’impensabile: al primo passo su quell’erba perfetta sento come una vampata, vengo travolto da un’estasi contemplativa di fronte all’enorme bellezza di tutti quei bambini disposti in semicerchio e ordinati in base al colore della maglia.

La Sindrome di Stendhal per la prima volta è stata raccontata così “Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti e i sentimenti appassionati…la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere”. Ecco, mi sento proprio così. Chissà che non sia malato. Mando i miei a scaldarsi, ma presto ci chiamano: dobbiamo sistemarci al nostro posto, come gli altri.

Alle prime note dell’Inno di Mameli credo di essere proprio uscito dal mio corpo; per non volare via abbraccio mio figlio aggrappandomi alla sua maglietta e provo a cantare. Anche dalle tribune l’emozione sale palpabile, e strozza le note in gola agli spettatori. Finisce la musica, ci disponiamo tutti in cerchio e solo adesso mi accorgo che quello a cui mi sono aggrappato non è mio figlio, per lo meno non quello biologico…

Qualcuno mi spinge al centro del cerchio urlandomi “Dai Pepo, dije qualcosa”, mi guardo attorno ed è tutto gialloblù, di un bello accecante, confondente. L’emozione cresce ancora, e per un attimo tra quelle maglie mi sembra di intravedere Teresa, dolcissima, e Nando, più emozionato di me. E l’unica cosa che riesco ad urlare è “ragazzi, guardatevi: NOI SIAMO LA PRIMAVERAAA!!

E incredibilmente tutti capiscono, anche i più piccoli, o almeno così penso in questo momento e mi avvio verso il campo dove gioca l’U11. Ancora frastornato porto tutti in giro vagando per l’impianto, non trovo più la direzione. Per fortuna qualcuno mi viene a cercare e mi indirizza verso il campo A dell’under 11…”tranquillo, questa non la racconto a nessuno”.

Gli abbinamenti nei gironi sono gli stessi per tutte le categorie

E si comincia a giocare, ma anche i ragazzi sono tesi, un po’ emozionati e la prima partita non la giochiamo bene, perdiamo. Ma appena arriva la notizia che la 13 ha vinto qualcuno esulta urlando “e vai, allora siamo pari!!”. E si, perché è la famiglia gialloblu che gioca, è necessario allargare lo sguardo...

E poi la seconda partita, i ragazzi ormai mi sembrano gli All Black, lottano alla pari, placcano, combattono contro quelli che arriveranno terzi assoluti. E tra loro c’è mio figlio, che ha imparato a fare le ruck e lotta come un leone, ma ci sono anche tutti gli altri. Perdiamo 2 a 1, ma va bene così. Comincio a correre dall’altra parte dell’impianto per vedere l'U13 vincere ancora soffocando gli avversari con una ripetizione di placcaggi alternata ad un gioco elegante e generoso; che grandi che sembrano da qui...e da quel momento non mi fermo più, continuo a correre da una parte all’altra.Con l'U11 vinciamo una partita, poi pareggiamo contro i padroni di casa solo per una svista nella nostra area di meta, ma non fa niente perché Tito urla ai compagni di squadra che ”se sbaglia uno di noi, sbaglia tutta la squadra!!”. E via a correre a seguire l'U13, perché se tanto mi da tanto se vince uno di noi vince tutta la squadra!!

Siamo in finale, non so più con quale categoria. E a bordo campo, assolutamente incapace di percepire il mondo intorno a me, passo vicino alla coppa. Credo di averla anche minacciata: “stai attenta tu che ti porto a casa con me…”

Un papà è in campo anche lui, come accompagnatore, ma anche lui è in una dimensione extracorporea, e mi sussurra: “no, io non ce la faccio a sta’ qui”, “e vattene in tribuna” gli rispondo deciso. E quasi lo invidio mentre lo vedo allontanarsi.

I ragazzi dell'U13 entrano in campo, i megafoni annunciano la formazione. Adesso è proprio dura trattenere la commozione: penso a cosa passa nella testa di ognuno di loro sentendo scandire il proprio nome e cognome, come allo stadio quando gioca la Nazionale.

Per la finale non siamo ancora pronti, ma va bene così. Quanta strada abbiamo fatto tutti insieme, grandi e piccoli gialloblu.

I genitori sono stravolti, forse più dei ragazzi. Le emozioni finalmente si diluiscono, riprendo la percezione della realtà.

Con Massi ci attacchiamo a un fusto di birra lasciato incustodito sotto la pioggia fitta, ci reidratiamo, perché è sera e ancora non ne ho bevuto nemmeno un goccio.

E poi via, saliamo in pullman, si torna a casa…

Io non c’ero mai stato al Bottacin…ma mica lo so se potrei reggerne un altro!!

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